RICORDO DI GIANNI RODARI

Nel Quartiere di Corea, a Livorno, il primo settembre 1970, veniva inaugurata la Scuola Media Statale Sperimentale “Nicola Pistelli”. Era stata preceduta dalla Scuola per l’infanzia “G. B. Enriquez”, martire della Resistenza, anch’essa statale, cioè pubblica. I tipici edifici semi prefabbricati che già accoglievano classi della Scuola Elementare “A. Modigliani” e gli alunni del Doposcuola delle Medie del Quartiere, insieme alla Casa dello Studente, più il Salone dei Dibattiti e altre strutture minori formavano quello che fu per almeno vent’anni, il Villaggio Scolastico di Corea.

Don Nesi non era tanto innamorato degli edifici, delle strutture, quanto dei loro contenuti, cioè della Vita che vi si svolgeva dentro. Ricordo che il giorno della inaugurazione, (Don Nesi era solito ripetere: “La Scuola in Italia è quella cosa che comincia sempre dopo e finisce sempre prima”), con un gesto semplice, per niente enfatico, scoprì una piccola lapide che recava questa scritta: “Scuola: Tempio della Parola data a Tutti”, lapide ancor oggi visibile nell’Ingresso della ex-Scuola Media Sperimentale “Nicola Pistelli”, oggi sede dell’Associazione Nesi/Corea, attualmente presieduta da Silvia Papucci, e della Fondazione “Alfredo Nesi”, presieduta da Rocco Pompeo, tra l’altro, ex-studente della Casa. Don Nesi era un uomo molto concreto, con i piedi ben piantati per terra.

In quei giorni, ricordo, lesse, non so dove, non so come, una frase che richiamava, vagamente il contenuto di quella lapide. Ne fu colpito e ce lo disse. La frase era: “Tutti gli usi della Parola a Tutti. Non perché tutti diventino artisti, ma perché nessuno sia schiavo”. Sotto la frase spiccava il nome di Gianni Rodari. Don Nesi: “E’ un’idea fantastica” E lui, uomo concreto che credeva con le mani, si mise sotto e fece del tutto per avere in Corea, il Re della Fantasia, come già veniva chiamato talvolta Gianni Rodari.

Non fu facile. Già affermato scrittore per l’Infanzia e giornalista di Paese Sera, dove teneva una rubrica molto fortunata: “Benelux”, in cui quotidianamente con sottile ironia e un garbato sarcasmo, anziché correggere gli innocenti strafalcioni dei suoi scolari, fustigava le furbizie e le malefatte dei potenti di turno. Proprio in quel periodo, Rodari, venne chiamato, non ricordo se dal Comune di Reggio Emilia o di Modena per tenere un Corso di Aggiornamento alle Maestre e ai Maestri della Prima Scuola Statale per l’Infanzia, istituita da una di quelle Amministrazioni.

In quegli anni, tipici anni del Dialogo, non fu difficile per don Nesi, mettersi in contatto con Gianni Rodari, il quale si presentò con un programma che poteva essere riassunto in questi due punti: “O tu accetti quello che dalla società ti arriva, e allora accetti di riperpetuarne i suoi modelli, oppure da quelli ti distacchi e cerchi di respingerli con quotidiani atti di resistenza umana, sociale, culturale”.

Gianni Rodari è stato un regalo che don Nesi ha voluto fare ai suoi maestri e alle sue maestre di Corea e, soprattutto, agli alunni del Doposcuola, i quali, tra le varie carenze, avevano quella di non sapersi esprimere in un corretto e fluido italiano. Non erano certo a livello dei primi ragazzi di Barbiana che, bene o male, una loro cultura ce l’avevano, ma quando si trattava di comunicarla, avevano come una specie di sasso in bocca che glielo impediva. Questi, cioè, i nostri ragazzi, non avevano neanche quella.

Quando Gianni Rodari arrivò in Corea, capì subito che si trattava di dare a quei ragazzi, non solo una lingua, ma una cultura. In una delle tante conversazioni che avevamo con lui, quando lo accompagnavamo alla mattina a prendere un cappuccino in un bar del Quartiere (che gli piaceva attraversare, conoscere, e osservare i suoi abitanti), ci disse: “La Logica, fin da quando è stata scoperta, bene o male, ci ha insegnato, più o meno, a ragionare. Oggi bisognerebbe scoprire una Fantastica che ci consentisse più che di ragionare, di inventare, inventare storie, ma con una diversa Logica; credo che questo darebbe ai vostri ragazzi la voglia di scrivere storie” Poi, come per convincersi e convincerci di quello che stava dicendo, aggiungeva: “Quella di inventare è proprio un’arte ed è proprio quella che dovrebbe insegnare ai ragazzi non solo a parlare, ma anche scrivere. E allora sì che combatterebbero ad armi pari anche con questi qui”. E così dicendo, quasi accalorato, ci mostrava una fascia di quotidiani che, fin dalla prima mattina, si era infilato sotto il braccio, dopo averli scrupolosamente esaminati.

Credo che in quegli anni fosse ancora giornalista a Paese Sera. Io, Domenico, Fabio, Nino, Giorgio e altri, a seconda dei casi, ad un certo punto, lo lasciavamo al suo lavoro. Spesso, su uno di quei tavoli di un bar di Corea, dove amava preparare le sue lezioni per i ragazzi del Doposcuola. In seguito venimmo a sapere che le sue “lezioni” procedevano più o meno così.

Invitava tutti i ragazzi, o a turno, o in gruppo, dopo essersi consultati, a scrivere, o alla lavagna, o sul quaderno, o a riferire a voce, una parola qualsiasi, fosse anche la prima che veniva loro in mente. L’attenzione e il silenzio sorgevano spontanei per la necessità di intendersi e capirsi, ma alcuni, mi, ci riferirono che il brusio era tanto, un brusio di lavoro. Dovevano poi, tra le tante parole indicate, sceglierne alcune per approfondirle e indicarne in frasi scritte orali tutti gli usi possibili, non solo per il loro significato, ma come utilizzo di oggetti concreti che quelle parole rappresentavano.

Ad esempio “Mattone”. Che cosa ci si costruiva; perché ci si costruiva; chi costruiva; chi costruiva i mattoni per costruire e con che cosa erano costruiti… terra-cotta? … e quasi inavvertitamente si passava a panna-cotta e si scopriva che in realtà esiste una “mattonella” che si trova non solo nei pavimenti delle cucine e dei bagni, ma anche sui banchi e le vetrine dei pasticceri.

Quei circa due mesi, passati in Corea, furono, anche per Rodari, un’esperienza di cultura, di formazione. Ce lo disse una sera a tavola, alla Casa dello Studente, quando mi trovai tra un costruttore di Scuole, seppure prefabbricate o semi, e non solo in Italia, (mi riferisco, naturalmente a Don Nesi), e uno che dentro le scuole “ci costruiva”, cioè, Gianni Rodari. “Io sono per una scuola che costruisce”, ci disse quella sera, “Noi, non dobbiamo lasciar fare i ragazzi. Noi non dobbiamo lasciarli andare spontaneamente, permettere loro di inseguire chissà quale inesistente fantasia. La libertà, a questo livello sarebbe solo un disperdersi e lasciarli perdere. Cosa contraria ad ogni insegnamento, ad ogni pedagogia. l’importante è “costruire” sull’esperienza, sul linguaggio dei ragazzi stessi”. La ragione di certi giochi fantastici serve ad aprire la mente dei ragazzi. Sono importanti per la formazione del loro pensiero logico: logica e fantasia insieme”. Quella sera capii perché Rodari e Don Nesi si erano subito “capiti”, fin dal loro primo incontro. Quella sera, Gianni Rodari, ci intrattenne su uno di quei tanti giochi fantastici che egli usava in classe.

Invitava i ragazzi a scrivere, riferire, questa volta, non su una sola parola, ma su due. Questo gioco lui lo chiamava: “Il Binomio Fantastico”. Si trattava di accoppiare, mettere insieme, far interagire in qualche modo, attraverso dialoghi, storie, rime ecc. due parole. Naturalmente scoraggiava, anzi troncava sul nascere accoppiamenti del tipo: cane e gatto, asino e cavallo, lavagna e gesso; “Sono accoppiamenti troppo pigri”, diceva. Sollecitava e suscitava parole che fossero il più possibile lontane fra di loro. “Più le parole sono lontane, più la fantasia si deve muovere, lavorare per cercare di imparentarle, avvicinarle.” Alla fine si arrivava sempre ad un binomio fantastico del tipo: semaforo e bottiglia, e veniva fuori la storia di un semaforo in bottiglia o di una bottiglia chiusa dentro un semaforo, il quale, visto che c’era se la beveva anche, e, a seconda di quel che c’era dentro, si ubriacava al punto che tutti i suoi colori: rosso, giallo, verde, impazzivano al punto da suscitare qualche problema tra gli automobilisti che non ci capivano più niente, con tutte le conseguenze del caso.

Da qui poteva nascere, scaturire, quasi spontaneamente, un dibattito ordinato sulla necessità di regole chiare, precise, da tutti accettate e condivise e anche su problemi sociali come l’alcolismo ecc. ecc. non estraneo all’esperienza, a volte vicina, dei ragazzi stessi. So che alla fine del Corso, i nostri ragazzi erano diventati così esperti che bastava loro una singola parola per tirarne fuori una piccola storia, anche breve, breve. È dall’applicazione di queste tecniche e di molte altre, nate e sperimentate in classe che è nato quel famoso quaderno di Corea, “Voglia di Scrivere”, interamente redatto da quei ragazzi del Doposcuola, grazie agli stimoli e ai suggerimenti di Gianni Rodari. La voglia di parlare e di esprimersi che egli aveva suscitato in loro, si era trasformata, quasi naturalmente in Voglia di Scrivere.

Ricordo che, alcuni di loro, erano diventati così esperti che un pomeriggio, al Doposcuola, gli chiesi di inventarmene una lì su due piedi. “Ah! Si, dissero con entusiasmo tre o quattro di loro: “Inventiamo una storia, una storia corta corta”. “Comincio io”, disse una ragazzina e pronunciò la prima parola, come se fosse stata la formula magica di un rito:” Vedo, vedo, vedo” … Subito saltò su il suo vicino di banco che dopo averci pensato un po’, esclamò, con entusiasmo, come se avesse fatto chissà quale scoperta: “Un coccodrillo” … “un coccodrillo che fuma la pipa”, aggiunse subito un altro, fiero della sua trovata … “E non solo la fuma, precisò un terzo, “ma addirittura la mangia” … “La mangia, la mangia”, gridò quasi con sorpresa un’altra bimba che poi, sorridente, concluse: e il fumo gli esce fuori dalla coda”!

Certo, mi resi conto, che in così poco tempo, Gianni Rodari, in Corea, ci aveva lasciato il segno … Ma io credo che Gianni Rodari era venuto in Corea, anche con un altro scopo: far entrare nella poesia quelli che dalla poesia erano sempre stati esclusi. Egli era convinto che proprio i ragazzi, meglio di ogni altro capissero la Poesia, proprio perché la poesia, sosteneva lui, “non si deve capire, ma solo sentire. Se gli avessi scritto poesie alla lavagna, forse, non le avrebbero comprese, se gliele lasciavo inerte nel linguaggio grafico, ma, se pur dicendola male, io gliela dicevo con la voce, rimanevano a bocca aperta, vedendomi che facevo far uscire quelle parole dalla mia bocca”.

Un giorno, Rodari, se ne venne fuori così con queste parole che gli frullavano in testa e, non sapeva nemmeno lui, cosa ricavarci: “Forse perché della fatal quiete tu sei l’imago …” poi, si mise a ridere e disse, quasi ironicamente: “Ma chissà se voi capite che cos’è la fatal quiete. Fu subito interrotto da due o tre: Ahó! fecero, è la morte.” Avevano capito benissimo, anzi, erano offesi. Rodari aveva notato che, se non altro, per induzione, alcuni, si mettevano a scrivere dei versi. A volte, anche belli, interessanti. C’era un ragazzetto di quarta elementare, il diavolo della classe, spesso all’ultimo banco, come erano i metodi scolastici di un tempo. Un giorno, Rodari, lesse una poesia da uno di quei libretti che ogni tanto tirava fuori da una delle sue tasche. Era la poesia Al Padre, di Sbàrbaro. Ricordate? Quella che comincia:

Padre, se anche tu non fossi il mio

padre, se anche fossi a me un estraneo,

per te stesso egualmente t’amerei.

Ché mi ricordo d’un mattin d’inverno…

Il giorno dopo quando Rodari lo rivide in classe, quel ragazzino gli disse: “Ho scritto una poesia anch’io”. La maestra subito: “Tu zitto, Dammela”. Chissà, forse temeva una delle sue. “No, no, disse Rodari. “fammela vedere la voglio vedere io, portamela”. Gliela fece leggere. Era bellissima, Michelangiolesca, ci raccontò poi, Gianni Rodari, lui era figlio di un barista. Suo padre lo picchiava, “lo menava” come diciamo noi a Roma. La poesia cominciava così:

Padre, so che tu sei tanto stanco,

che tu lavori tanto,

e so che tu fai per me, tanti sacrifici,

ma io ti chiedo una sola cosa,

una sola volta alza quel braccio,

e abbassalo,

ma non per picchiarmi,

ma per farmi una carezza… “

Eravamo già entrati o stavamo per entrare nella cosiddetta “Società dei Consumi”, o “Civiltà di Massa”, come la chiamavano alcuni. Gianni Rodari insegnava a distinguere tra Civiltà e Massa. Al posto della Massa, preferiva la Persona, l’Individuo, per cui dalle sue filastrocche nascevano personaggi come Giovannino Perdigiorno:

Giovannino Perdigiorno

ha perso il tram di mezzogiorno,

ha perso la voce, l’appetito,

ha perso la voglia di alzare un dito,

ha perso il turno, ha perso la quota,

ha perso la testa (ma era vuota),

ha perso le staffe, ha perso l’ombrello,

ha perso la chiave del cancello,

ha perso la foglia, ha perso la via:

tutto è perduto fuorché l’allegria.

Insomma, Giovannino, in quel mondo, frettoloso, irrequieto, rumoroso, cominciava a non trovarcisi più. A chi gli fece notare un giorno che le sue filastrocche erano un po’ anacronistiche, rispetto alle esigenze di una pedagogia più moderna, rispose citando la difesa di un poeta inglese, di cui non ricordo più il nome, criticato più o meno per gli stessi motivi. “Quando voglio parlare della luce, non ho bisogno di riferirmi alla lampadina elettrica. Preferisco il lampo, il fulmine. Quelli, almeno, sono sempre contemporanei. Il linguaggio è una cosa che deve far crescere il bambino, Rodari ha sempre in mente dove vuole arrivare: ricostruire un ordine diverso un modo diverso in cui tutti sono più ricchi di libertà e di vita, Con Gianni Rodari anche l’errore diventa un’opportunità: temino, dettatino, riassuntino neutralizzano la vita del bambino e quindi la sua fantasia. Il bambino va trattato come essere pensante, semplicemente perché pensa. Partire, quindi, dai bambini, dalla loro lingua, dalla loro esperienza, dalla loro cultura. In quegli anni, l’Italia visse un momento di rinnovamento della Scuola e nella Scuola. Restano a testimoniarlo libri come: “Lettera a una Professoressa”, “Il Paese Sbagliato”, “Grammatica della Fantasia” e Filastrocche in Cielo e in Terra. Che cosa portò Gianni Rodari quell’anno in Corea: una grande fiducia nell’uomo e una grande fiducia nella parola, logica e fantasia, politica e umanità. Tutte cose che bisognerà continuare a ricercare e perseguire. È difficile? Si! È difficile fare le cose difficili, diceva quei giorni Gianni Rodari anche ai nostri ragazzi.

È difficile parlare al sordo, mostrare la rosa al cieco, imparate a fare le cose difficili: esortava e ammoniva quei giorni Gianni Rodari ai nostri ragazzi: imparate a dare la mano al cieco, imparate a cantare per il sordo, imparate a liberare gli schiavi che si credono liberi. E questo fu il suo insegnamento in quei giorni in Corea. E così io lo ricordo:

A GIANNI RODARI

(1920 – 2020)

Ricordo il giorno in cui Gianni Rodari

Venne in Corea, tra i nostri scolari,

(lo aveva Chiamato Alfredo Nesi):

Restò con loro, quasi due mesi…

Tanti ragazzi, tutti diversi:

Con loro scrisse bellissimi versi,

semplici, pieni di fantasia:

così scoprirono la… poesia…

Scoprirono d’essere tutti uguali

E tutti liberi in quanto tali

resi uguali dalla Parola

appresa insieme sui banchi di Scuola

dove si legge, si parla, si scrive,

dove crescendo, si pensa, si vive:

Con lui fiorì la loro esistenza

E fu per tutti una bella esperienza:

un’altra vita, un altro sapere.

E, Così appresero che per volere

un mondo più giusto, più vero, più bello,

ognuno ha da fare qualcosa per quello.

Carlo Chionne